Mi sono trovata faccia a faccia con Pascale Kramer e la sua potente scrittura nel 2018, quando in occasione del Book Pride–Suisse Pride di Milano il sindacato dei traduttori editoriali Strade, di cui sono socia, mi ha proposto di partecipare a una joute de traduction su un testo di questa autrice svizzera a me fino ad allora sconosciuta, sebbene notissima e pluripremiata in territorio elvetico.
Mia madre era morta da quattro mesi e mio padre, stravolto dal dolore, l’aveva raggiunta da poco più di una settimana; dunque, quando ho avuto davanti agli occhi il romanzo Les vivants, e in particolare il brano da tradurre centrato su un episodio di morte, a cogliermi è stata una pesantezza infinita, la sensazione che non ce l’avrei mai fatta a trascorrere ore in solitudine con parole e scene di dolore.
Invece… invece stavo per rivivere una volta di più il potere consolatorio e taumaturgico della mia professione di traduttrice, e stavo per scoprire una scrittrice di rara bravura nell’insinuarsi tra le incrinature dell’animo, nello scandagliare fragilità messe a nudo e perlustrare con garbo il sottile crinale che separa la crudeltà degli eventi dall’umano sentire.
Eccomi allora alle prese con una tragedia umana che Ce fut aussi bref qu’un coup de cymbale (non durò più di un colpo di cembali) e con i suoi protagonisti, i quali n’osèrent cesser de sourire, de peur de provoquer un danger qu’ils ne pouvaient pourtant pas concevoir (non osarono smettere di sorridere, tanto era il timore di innescare un pericolo che non riuscivano comunque nemmeno a concepire).
La scrittura corposa e scarna al contempo di Pascale Kramer, quella sua alta densità emotiva che emerge da un detto/non detto hanno creato in me da subito, mentre mi preparavo all’incontro, un coinvolgimento empatico tale da farmi quasi dimenticare il mio stato d’animo, e capire che avrei voluto tradurre ancora quella scrittrice con cui di lì a poco mi sarei trovata a sbocconcellare una piadina. E sono state poi la sua semplicità e la sua giovialità - così in contrasto con la scrittura sorvegliatissima e spessa con cui mi ero misurata con non poca fatica nei giorni precedenti - ad accrescere ancora il mio interesse. Devo dire, per inciso, che l’iniziale curiosità si è rapidamente trasformata in una sorta di complicità quando, ormai arrivate al caffè, ci siamo rese conto di essere entrambe single e senza figli, oltre che coetanee.
Pochi mesi dopo, avendo deciso di far tradurre un testo inedito ad alcuni miei studenti, l’ho ricontattata ed è così che ho conosciuto un’altra sfaccettatura della sua scrittura, quella giornalistica, quella della denuncia sociale. Nell’articolo L’effroi et la honte, pubblicato nel 2016 sulla rivista on line Le 1, lo stile snello e diretto della giornalista intenta a documentare la pietosa situazione dei senzatetto parigini ha la meglio sulla cesellante penna della romanziera; ed è revisionando le traduzioni degli impavidi studenti che ho sentito crescere anche un’affinità, diciamo, etica. Ormai l’incantesimo era fatto: scrittura implacabile, personalità trasparente, impegno sociale = dovevo assolutamente tradurre un romanzo di quella autrice.
La fortuna ha voluto che un amico traduttore trovasse molto generosamente per me una casa editrice interessata ad aprire le porte a scritture di qualità, ed ecco che in partenza per un soggiorno in Grecia mi ritrovavo tra le mani quattro romanzi firmati Kramer, di cui avrei fatto le schede di lettura per decidere poi il da farsi e passare subito all’acquisizione dei diritti. Visto il periodo per un verso magico della mia vita, niente di strano che la prima scelta cadesse su “Autopsie d’un père”, dove Kramer - con quella che iniziavo a riconoscere come la sua scrittura appuntita -, incide in modo amorevolmente spietato la precaria lastra degli affetti di famiglia. Bene, la scheda è fatta, l’editore convinto, pronti si parte per acquistare i diritti e per Paros. Senonché, sotto un eucalipto di Ambelas dove ogni mattina cercavo pace davanti a quella thalassa così ancestralmente curativa, ho iniziato a leggere “L’implacable brutalité du réveil”.
Il romanzo si svolge sulla costa californiana, e potremmo riassumerlo come la lenta descente aux enfers di una neomamma colta nel fotogramma che segue al famoso “E vissero felici e contenti…”. Certo, una volta di più nella mia esperienza di lettrice e di traduttrice non bastava la storia ad ammaliarmi: in quel caso fortissimo su di me è stato l’impatto di uno stile secco, di una tensione narrativa retta da una scrittura scomoda in grado di far esplodere il silenzioso magma di una tragedia che copre altre micro tragedie. Né io né Kramer, come dicevo, siamo mamme, ma evidentemente entrambe abbiamo una fondata percezione di quante donne, subito dopo il parto, si trovano a vivere nel silenzio l’angoscia di scelte sbagliate e irreversibili. Sbagliato aver sposato quell’uomo, sbagliato aver fatto un figlio. Finalmente un romanzo in cui il tabù veniva scoperchiato con la necessaria spietatezza stilistica. Il dado della sfida traduttiva mi sembrava tratto e perfetto. Dunque, via, la scheda di lettura volava da Paros all’Italia e si cambiava programma: tradurrò questo romanzo. Ora era certo. E ai colpi di fulmine non si comanda.
La vita poi è andata avanti, e ho trascorso in mezzo a mille altri impegni mesi e mesi con quella scrittura aguzza che procede per sottrazione, quella scrittura chirurgica e fisica della Kramer, dove tatto, olfatto e udito si intrufolano nel non detto. E lì ho cominciato a grondare sudore, a chiedermi perché mai tutto filava così morbidamente bene nel respiro, nel ritmo, nella punteggiatura dell’originale e io, nel tradurre, non riuscivo a…
Non riuscivo a trovare in italiano lo spazio adeguato a quel continuum di sospensione narrativa, ad esempio, né dare scioltezza e verità a quei dialoghi assolutamente privi dei rassicuranti segni grafici che solitamente prendono per mano il lettore - e il traduttore – sigillando un tacito patto: in quel preciso punto della riga che hai davanti agli occhi tu sai più o meno cosa ti aspetta, sai d’istinto come immergere il piede all’altezza giusta in quel pezzo di mare. Invece, niente: inseriti nel corpo della narrazione senza alcun segno di interpunzione, i dialoghi - spesso riferiti a un altrove mentale o narrativo, e dunque fuorvianti - te li ritrovi incastonati nella densità di una scrittura maledettamente cesellata, mentre tu ti rendi conto, rileggendoti, che stai facendo strisciare la tua lingua in una fanghiglia dove si avanza a fatica. Last but not least, non riuscivo a dare piena armonia, come sa fare così sapientemente Kramer, ai movimenti fisici dei personaggi, sempre così fortemente loquaci nella sua scrittura; movimenti passati al setaccio e alla lente di ingrandimento per scorticare quello che spesso né il ruolo né le parole sono in grado di far emergere.
Esattamente un anno dopo la trouvaille greca ho avuto la fortuna di poter revisionare di nuovo la mia traduzione nella splendida residenza di Lavigny, e davanti a una finestra nobile affacciata sul Lago Lemano ho finalmente trovato il passo di quella scrittura reticente che vuole lasciare al lettore lo spazio per elaborare il non detto; credo di aver imparato lì a nuotare a mio agio in mezzo alla scrittura ellittica della Kramer, e a quel punto mi sono lasciata andare ai suoi spazi “vuoti” che qua e là andavano riempiti, a volte solo costeggiati, a volte magari scientemente traditi per far in modo, almeno, di renderne l’intenzione.
Un parto durato un anno, in fondo, e conclusosi credo felicemente poche settimane fa anche grazie all’apporto di un grande revisore. Ora aspettiamo – pandemia permettendo - di vederlo camminare presto sulle sue gambette cartacee; anche perché altri romanzi di Pascale Kramer ci aspettano, e non voglio certo rinunciare all’idea di continuare a tradurre il mondo vertiginosamente seducente di questa scrittrice.
Testo scritto dalla traduttrice Luciana Cisbani - Crema, 27 aprile 2020